martedì 24 febbraio 2009

Violette

Oggi le strade erano calde di un sole di maggio e alla mia pelle in pieno risveglio primaverile venne in mente di esprimersi indipendentemente dal sistema nervoso. E allora i pori, tutti rianimatisi contemporaneamente dopo un lungo inverno al chiuso, come sotto un incantesimo o chissà, a seguito di una decisione collegiale a cui non ero stato invitato, lentamente si mossero allargando i loro orifizi ed immettendo nell’aria cittadina un inaspettato profumo di prato fiorito. Camminavo allungando i passi per limitare il mio ritardo in ufficio quando, stimolato da questo dolce e avvolgente afflato non potei fare altro che accostarmi prima sul lato meno trafficato del marciapiede e poi parcheggiando i miei settantadue chili nell’insenatura di un portone su calle Aguilera.
Stordito dalle secrezioni alla violetta di centinaia di migliaia di geyser impazziti mi rifugiai al riparo dal tran tran della strada imboccando lo spiraglio tra il portone ed il suo telaio mentre una signora alto borghese in tailleur e cappellino si apprestava a mettere i suoi tacchetti da otto centimetri sui luridi marciapiedi della città accompagnata nell’impresa dai suoi due ridicolmente acconciati chiwawa a pelo corto. L’androne del palazzo, degno proscenio di rifugi marmorizzati dai pendagli di boemia, si sviluppava in un lungo corridoio tutto specchi e moquette vinaccia. Dal tentennamento che si impossessò del mio piede destro nel poggiarsi sul soffice pavimento mi resi conto che avrei fatto meglio a trovarmi rapidamente un solido appoggio prima di stramazzare a terra colpito da nausee e conati.
Mi accostai alla mia sinistra alla porta oblò-dotata del portiere e quando constatai la sua puntuale assenza, raccogliendo le mie residue energie, la forzai manomettendo la serratura ed entrando nella piccola dépendance in penombra. Feci appena in tempo a sbottonarmi il colletto della camicia prima di abbandonarmi esanime sulla sedia imbottita, provvidenziale nel sostenere le mie membra inermi. E così, chiusi gli occhi, iniziai a sognare

1 commento:

  1. Ma il portiere dov'è? Possibilmente è morto. Si prepara il letto di morte (nessuno lo farebbe per lui). Poi si sdraia tra i fiori già mollicci e si dà un tono da veglia.
    Disturbo Dismorfofobico:consiste nell'errata convinzione o esagerata percezione di avere una o più parti del proprio corpo deformi.Comporta una significativa alterazione dei rapporti sociali o di lavoro.
    Il morto parlerà. Dovrà esserci una spiccata resa orale, dirà come ad un pubblico, occupandosi anche della fluidità dei movimenti,soprattutto di "quelle mani". A chi parlerà? A chi corre, a chi fugge, a chi sviene nella dépendance in penombra. Sarà proprio atttratto da quell'odore in penombra, di corpo agitato, un odore colposo di chi vuol trovar pace nella penombra, contro gli altri. Apparirà senza contorni ma con tutto l'essenziale: occhi di negro che emergono dal buio. Si presenterà - Qualsiasi vostra offesa sarà per me un augurio - e inizierà a vestirsi, da nudo che è. Non per riguardo ma per un certo, cupo senso di colpa. - Non c'è più nessun odore - continuerà, annusandosi i vestiti, ricordandosi della propria condizione e si libererà delle solite querule parole di cui s'ammanta un morto davanti a un vivo che ha avuto il buon senso di svenire. Duo per voci lontane. - La prego signore L'Inaudito e L'Inviso... la prego, che mi si ricordi così... del resto... al massimo della mia forma non ho saputo essere niente di più che un ossesso! Del resto... con queste mani..."
    A dimostrazione che più parole infiliamo tra noi e il mondo, più allontaniamo la nostra voce dai nostri fratelli, il suo dire, da concreto, evidente si farà astratto e superfluo.
    Una musica gentile soffocherà quella ridondanza di parole e azioni. E dalla musica ricominciamo!

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